Perché leggo

Sul mio comodino ci sono otto libri. Di questi soltanto La scuola cattolica di Edoardo Albinati e Non è un mestiere per scrittori di Giulio D’Antona sono novità. Gli altri sono il frutto di studi passati. Uso la parola studi e non letture perché io, il più delle volte, leggo per studiare. Sono tanti i motivi per cui decidiamo di leggere un libro: piacere, noia, curiosità; a volte per capire meglio cosa ci sta succedendo, per trovare una risposta, scoprire una voce o magari per sapere come si comportavano gli uomini nelle epoche precedenti alla nostra. Ogni motivo, anche quello che a prima vista sembra meno nobile di altri, è valido perché noi abbiamo stabilito che è così. Il mio motivo principale è lo studio. Per me leggere significa scoprire e conoscere, e i libri sono fonte di scoperta e conoscenza.

Non ho frequentato l’università, se non a sprazzi, e credo sia questo il motivo per cui leggo a scopo di studio. Ho l’impressione che chi ha fatto studi regolari, una volta raggiunta la laurea abbia meno voglia di apprendere. Ho amici che al termine dell’università hanno smesso di leggere libri e di essere curiosi. Al contrario chi sa o sente di avere delle lacune culturali, a un certo punto viene assalito dal desiderio di conoscere e si apre per sempre agli studi. A me è successo intorno ai venticinque anni, quando già lavoravo da cinque anni, e da quel momento non mi sono più fermato. Adesso non mi sento appagato finché non ho la sensazione di aver esaurito un argomento. D’altronde ogni libro condensa centinaia di altri libri letti e così via indietro nel tempo. Leggere un libro è come stare tra due specchi: dietro ognuno ce ne sono altri, e poi altri ancora, sempre più piccoli, all’infinito. L’ereditarietà, la contaminazione tra opere e un certo gusto per la ricerca sono aspetti che mi interessano sia come lettore, perché mi provocano un piacere intellettuale immenso, sia come aspirante scrittore di un storia che gira intorno al concetto di morte. Provo a spiegare cosa intendo facendo questo esempio.

tulp

Nella prima parte de Gli anelli di Saturno (terzo libro sul mio comodino), Winfried Sebald racconta di quando fu ricoverato all’ospedale di Norwich in stato di completa immobilità. Dopo essere stato dimesso dalla struttura aveva iniziato delle ricerche su Thomas Browne – un medico che visse nel Seicento, autore del trattato Religio Medici (quarto libro sul mio comodino) con cui aveva tentato di appianare i contrasti tra scienza e fede – il cui teschio, per molti anni, fu conservato proprio nel Museo del Norfolk & Norwich Hospital. Nonostante i suoi tentativi di vederlo, però, nessuno sapeva dove fosse. Sebald riporta quindi la riflessione fatta dallo stesso Browne in cui il medico inglese definisce tragedia e abominio l’essere espulsi dalla propria tomba. E’ probabile che Browne, racconta ancora Sebald, abbia assistito al Waaggebouw di Amsterdam alla dissezione del cadavere del ladro Aris Kindt, ritratto da Rembrandt nel dipinto La lezione di anatomia del dottor Tulp. Tra gli spettatori potrebbe esserci stato anche René Descartes. Sebald usa quindi Thomas Browne per parlare dei riti funerari dei popoli e conclude il libro ricordando che a quei tempi in Olanda, nelle case in cui era morto qualcuno, fosse usanza coprire tutti gli specchi e i dipinti con un crespo di seta nera affinché l’anima in procinto di lasciare il corpo non venisse distratta dalla vista della propria immagine.

Appunti presi durante la lettura:

– Fare ricerche sul tema del destino delle ossa; ricordarsi della storia della tomba di Veermer; ricordarsi dei cimiteri bombardati durante le guerre; rileggere la veduta di Delft nel libro E i nostri volti, amore mio, leggeri come foto di John Berger (quinto libro sul mio comodino); cercare le Urne sepolcrali di Browne; cercare la foto scattata lo scorso anno al Mauritshuis dell’Aia, ricordarsi dell’impressione che mi fece il dipinto e rileggere gli appunti; riprendere il libro di Steven Nadler Il filosofo, il sacerdote e il pittore (sesto libro sul mio comodino) e L’Uomo di Descartes (settimo libro sul mio comodino) in cui, come un dotto anatomista, descrive le ossa, i nervi, i muscoli, le vene, lo stomaco, i polmoni. I temi dominanti di Sebald sono la distruzione della natura, la piccolezza dell’uomo di fronte ad essa e lo scorrere inesorabile del tempo; ricordarsi del viaggio di Sebald in Corsica; sui riti di morte fare dei collegamenti con la Storia della morte in occidente di Philippe Ariès (ottavo libro sul mio comodino).

Tramite questo esempio spero di aver chiarito cosa produce in me la lettura e cosa significhi per me leggere. Giulio Einaudi diceva che “il libro deve coinvolgere al massimo l’intelligenza e la sensibilità del lettore. Quando in un libro una frase, una parola, ti riporta ad altre immagini, ad altri ricordi, provocando circuiti fantastici, allora, solo allora, risplende il valore di un testo”. Il libro di Sebald ha fatto esattamente questo: mi ha coinvolto, mi ha fatto ricordare un viaggio e le sensazioni provate, è stato lo spunto per collegare altri testi, per riflettere su ciò che sto scrivendo e ha amplificato il mio gusto per la ricerca. Vale per il libro di Sebald come per tanti altri libri di cui dovrei parlare. Sono infinite le possibilità di godere di tutto ciò perché i libri agiscono come uno scrigno. Noi ci avviciniamo a loro convinti di sapere cosa contengono. Invece, non appena ne apriamo uno e iniziamo a leggerlo, scopriamo una tale ricchezza di materiali da aprire dentro di noi squarci improvvisi di felicità. Certamente bisogna conoscerci come lettori e prestare più attenzione alle forme di narrativa e ai generi presenti. La possibilità di leggere un buon libro, non smetterò mai di ripeterlo, non si ferma davanti allo scaffale delle novità.

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