Come un romanzo dell’Ottocento ‘Il cardellino’ ci svela il cuore del mondo

di Alessandro Melia

Donna Tartt by Beowulf SheehanScrivere significa tenere insieme il mondo dopo che l’hai fatto a pezzi. Molta della bellezza che troviamo nella letteratura nasce da questo”. Nella ‘Palladium Lectures’ dedicata alla scrittura, Alessandro Baricco usa questa definizione per raccontare Marcel Proust. L’autore de ‘Alla ricerca del tempo perduto’, nell’atto di scrivere, “fa un solo gesto: con un bisturi taglia, disseziona la realtà per poi restituircela intera”. Pochissimi scrittori oltre a Proust, dotati di straordinarie capacità tecniche, sono riusciti a fare questo: Dickens, Dostoevskij, Tolstoj, Joyce, Flaubert, Mann, Melville, Garcia Marquez. I loro romanzi racchiudono l’insieme di tutte le esperienze possibili. Grazie alla varietà dei personaggi, alle descrizioni minuziose delle città e dei periodi storici, ai sentimenti e alle sensazioni che provano i protagonisti, ai ragionamenti sulla vita, la morte, gli amori, le sofferenze, le relazioni sociali, sono riusciti a riprodurre il mondo su carta. Negli ultimi venti-trent’anni di romanzi di questo tipo ne sono stati scritti pochissimi e molto diversi tra loro: ‘Underworld’ di De Lillo, ‘2666’ di Bolano, ‘Le correzioni’ di Franzen, ‘A un cerbiatto somiglia il mio amore’ di Grossman. A questi, oggi, possiamo aggiungere di diritto ‘Il cardellino‘ (Rizzoli) di Donna Tartt.

La scrittrice del Mississipi, alla sua terza prova narrativa, realizza un romanzo monumentale (892 pagine) dagli echi ottocenteschi. Scritto nell’arco di dieci anni, ‘Il cardellino’ (nome del quadro del pittore olandese Carel Fabritius, il miglior allievo di Rembrandt, morto giovane nell’esplosione di una fabbrica di polvere da sparo a Delft nel 1654) è un’opera magnifica sotto tutti i punti di vista. La scrittura è accurata, precisa, le parole sono lavorate, mai lasciate al caso. Il primo capitolo si apre con una citazione di Camus (“L’assurdo non libera: vincola”) che dà subito il senso (esistenzialista) di ciò che si sta per leggere e richiama – questa l’impressione che ho avuto – alla stessa opera di Fabritius. Il cardellino dipinto, infatti, è un uccellino domestico legato, o meglio ‘vincolato’, ad un trespolo da una catenella appena visibile. Ci osserva da lì, placidamente, nella sua solitudine, davanti a un muro spoglio. Cosa volesse dirci esattamente Fabritius non lo sappiamo, la maggior parte delle sue opere andarono perse con l’esplosione. Ma forse trovare una spiegazione a tutto non è così importante, come ci suggerirà Donna Tartt.

Il romanzo racconta la storia di Theo Decker, che all’età di tredici anni rimane coinvolto in un attentato terroristico al Metropolitan Museum of Art di New York. L’esplosione uccide sua madre mentre lui, quasi illeso, fugge e porta via con sé Il cardellino. Rimasto solo, Theo viene affidato ai genitori benestanti di un suo compagno di scuola, la famiglia Barbour. Nella nuova casa di Park Avenue, però, Theo si sente a disagio, isolato dagli amici e tormentato dalla nostalgia nei confronti della madre. Il padre, sparito un anno prima, torna a manifestarsi con la sua nuova compagna Xandra e lo porta a vivere a Las Vegas, dove condurrà una vita fatta di alcol e droghe. In quel “bagliore senza stagioni” conoscerà quello che diventerà il suo più grande amico: Boris. Poi, quando anche il padre morirà, Theo tornerà a New York, imparando a scivolare con disinvoltura dai salotti più chic della città al polveroso labirinto del negozio di antichità in cui lavora. Si innamorerà, ma dell’unica persona che non potrà mai avere. Finché, in preda a una pulsione autodistruttiva, finirà ad Amsterdam, coinvolto negli ambienti della criminalità proprio a causa dell’unica cosa che lo aveva tenuto in vita: il piccolo quadro raffigurante un cardellino. (“Anche se potevo guardarlo solo di rado mi piaceva pensare che fosse lì, per via della profondità e concretezza che infondeva alle cose. Era come se rinforzasse le fondamenta della mia vita, e mi rassicurava”).

Donna Tartt dissemina lungo il romanzo decine di spunti, citazioni, dettagli. Per chi ama leggere non c’è cosa più piacevole che lasciarsi cullare dalle descrizioni dei luoghi, dai ritratti delle persone, dalle sensazioni e dagli stati d’animo che prova Theo. Ogni relazione è analizzata, ogni pensiero è allo scoperto, ogni emozione affiora senza freni. E poi c’è l’amore per il cinema e i libri. “Tra i corsi che seguivo, Letteratura era l’unico che attendevo con gioia” dice Theo. Sono citatiDickens (‘Grandi Speranze’ e ‘Oliver Twist’), Dostoevskij (‘L’Idiota’), Thoreau (‘Walden’), de Saint-Exupéry (‘Terra degli uomini’), Puskin (‘Eugenio Onegin’), Melville (‘Moby Dick’). Le pagine più toccanti sono quelle che in cui Theo parla di Pippa, la bambina vista il giorno dell’esplosione al museo e che crescerà lontano (ma solo fisicamente) da lui. “Lei era il mio regno scomparso, la parte illesa di me che avevo perso insieme a mia madre. Il pensiero di lei inondava di luce ogni angolo della mia mente e riversava fulgore in solai prodigiosi di cui avevo ignorato persino l’esistenza. Lei era il filo dorato che intesseva ogni cosa, una lente che ingigantiva la bellezza a tal punto che il mondo intero appariva trasfigurato attraverso di lei”.

Nel finale Donna Tartt, con un congegno narrativo, sovrappone la storia di Theo Decker con alcune riflessioni (personali): qual è il segreto racchiuso nel cardellino, perchè non possiamo obbligarci a desiderare ciò che è bene per noi o per gli altri, come mai spesso siamo attratti da ciò che non possiamo avere, la certezza che non possiamo scappare da ciò che siamo. E quando ci si avvia verso una conclusione degna di Cioran (“Per me – scrive Theo su un quaderno – e continuerò a ripeterlo ostinatamente finchè vivrò, finchè cadrò sulla mia nichilistica e ingrata faccia e sarò troppo debole per ripeterlo un’ultima volta: meglio non nascere, che nascere in questa fogna”) ecco che si apre uno squarcio nell’esistenza, uno spazio sottile, uno spicchio d’arcobaleno in cui origina la bellezza. E la nostra mente torna alla prima pagina, alla citazione di Camus. “Sento di avere qualcosa di molto serio e urgente da dirti, mio inesistente lettore, e sento che devo dirtelo immediatamente. Che la vita – qualunque cosa sia – è breve. Che il destino è crudele ma forse non casuale. Che forse anche se non siamo sempre contenti di essere qui, è nostro compito immergerci comunque: entrarci, attraversare questa fogna, con gli occhi e il cuore ben aperti. E nel pieno del nostro morire, è un onore e un privilegio amare ciò che la Morte non tocca. Nella misura in cui il quadro è immortale, io ho una minuscola, luminosa, immutabile parte in quell’immortalità”.

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