Se mi chiedessero cos’è per te la narrativa, probabilmente risponderei: il modo migliore che conosco per esorcizzare la morte, parlando di morti. Quando leggiamo non solo riportiamo in vita la storia che stiamo leggendo – una storia che è già avvenuta e fa parte del passato – ma stiamo anche accendendo un faro sul nostro presente. Se lo scrittore è bravo ci consegnerà qualcosa che proviene dal mondo dei morti, ma che potremo fare nostro nel mondo dei vivi.
I libri che parlano di morte spesso sono memoir, diari, scritture che non seguono canoni prestabiliti, ma cercano i giusti sbocchi per raccontare l’esperienza umana. Sarah Manguso ci è riuscita egregiamente ne Il Salto (NNE), elegia per l’amico Harris J. Wulfson, suicida sotto un treno della metro di New York. Harris amava la musica, aveva un lavoro, un amore, una vita piena, ma soffriva di episodi psicotici ed è proprio dopo uno di questi che decide di fuggire dall’ospedale dove è ricoverato e di gettarsi sotto un treno in arrivo. Per la Manguso è un colpo terribile, Harris era il suo amico più caro e intimo, la capiva come nessun altro. La scrittrice conosce la psicosi perché anche lei ne ha sofferto, ha fatto uso (e continua a farne) di farmaci psicotropi e ha sperimentato gli effetti collaterali come la acatisia, sindrome che si manifesta come l’impossibilità di stare fermi per un’inquietudine, una sofferenza, un disagio insopportabile. Manguso rivela inoltre di aver avuto lei stessa la tentazione del suicidio; un gesto che in certe situazioni le sembra plausibile, razionale e non egoistico. Lo psicoanalista James Hillman ha scritto che il suicidio è un problema che non riguarda la vita, ma la vita e la morte insieme, e dunque più che essere spiegato attende di essere compreso. E’ questo il tentativo della Manguso: comprendere il suicidio di Harris e al tempo stesso comprendere se stessa di fronte al dolore, ricordandosi di essere, in fondo, soltanto “una particella in un processo cosmico che non ha niente a che fare con il desiderio o la giustizia”.
Ogni volta che leggo un libro dedicato alla morte di una persona cara, penso alla fatica fatta dall’autore. Se vuole trasmettere qualcosa al lettore non gli basta raccontare la cronaca di un avvenimento o la vita di quella persona; deve mettersi in gioco e attraversare il suo dolore, la sua vergogna, la sua paura, per risultare alla fine non più forte, ma consapevole. E’ un processo di scrittura e di analisi insieme a cui non si può sottrarre. Sarah Manguso ci si immerge fin dalla prima pagina, riuscendo così a stabilire un immediato legame con il lettore.
“Questo dolore è mio, e a differenza del mio amico non cerco di nasconderlo” (pagina 9); “Non parlatemi della ricca varietà di tradizioni funebri dagli albori della civiltà a oggi – non voglio sapere niente delle tradizioni. Non mi interessa scoprire come gli altri recitano il dramma della loro rovina. Voglio sapere del mio dolore, che è inconoscibile, come quello di tutti” (pagina 61); “Quando un tuo amico si butta sotto un treno, tu ripeti agli altri tuoi amici che gli vuoi bene, nel caso si vogliano buttare sotto un treno prima che tu abbia la possibilità di dirglielo” (pagina 77); “Non posso misurare il mio dolore e nemmeno far vedere di che colore è. Il mio dolore è sempre e soltanto mio” (pagina 79); “A cosa serve il dolore? Spiegazione reale: l’amore rimane. Non c’è altro conforto” (pagina 81); “Quando Harris morì, decisi di trascorrere un po’ di tempo a immaginare tutte le morti che non potevo prevedere. Visualizzavo la morte dei miei genitori, di mio marito, dei miei amici. Quando la morte reale arriverà, l’avrò già vissuta. Il suo assalto non mi farà vacillare” (pagina 85); “Il disegno della vita è l’esecuzione di vari progetti in un lasso di tempo ignoto ma finito. Molti di noi non sanno quanto durerà, quindi non sappiamo come usare il nostro tempo in modo significativo” (pagina 87).
Epicuro sostiene che non si deve temere la morte perché finché noi esistiamo lei non c’è e quando è arrivata noi non ci siamo più e dunque non può farci del male. E’ senz’altro vero, ma ciò che spaventa – e che ha spaventato Sarah Manguso – è il dolore, la sofferenza, l’incapacità di non essere più ciò che con tutte le forze si è cercato di essere.
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