di Alessandro Melia
Il pittore che si appresta a dipingere un ritratto dal vivo può guardare negli occhi il suo soggetto. Ce l’ha di fronte, è un uomo o una donna, può decidere che tipo di luce usare, quale postura conferirgli, ha a disposizione una gamma di espressioni pressoché unica. Lo scrittore o il critico che si prepara a realizzare un ritratto letterario, invece, può fare affidamento solo su libri, testimonianze, ricordi della persona che intende raccontare. Può trattarsi di qualcuno morto cento o duecento anni fa e di lui o di lei non sono rimaste che poche pagine. Ma è da lì che il ritrattista letterario, figura oggi quasi estinta, dovrà scovare quel particolare che gli permetterà di eseguire la prima pennellata. Nel suo caso l’incipit del ritratto. A differenza del biografo, che si fa strada con dati oggettivi quali la situazione storica, il quadro familiare, gli studi, le opere, seguendo spesso la cronologia degli eventi, il ritrattista letterario è alla ricerca dell’azione, ambisce al dettaglio da cui sviluppare la narrazione, come avviene in un romanzo. Il suo compito è arduo. Vuole far immergere il lettore nella vita della persone, per restituirgli, da abile psicologo, le sensazioni che essi provarono. L’Italia ha avuto due maestri nell’arte del ritratto letterario: Giovanni Macchia (leggere ‘Il mito di Parigi’ o ‘Baudelaire e la poetica della malinconia’) e Pietro Citati (‘Goethe’, ‘Manzoni’, ‘Kafka’, ‘Tolstoj’, ‘Katherine Mansfield’). I loro incipit sono pennellate letterarie. Macchia su Baudelaire: “Gli autori si allontanano lentamente da noi, come le navi che osserviamo immoti dalla riva. Per Baudelaire, a chi ne segue il cammino dalla fine del secolo, la visione è rovesciata. Come in quei prodigi d’ottica che ingannano i sensi, egli si avvicina a noi mano a mano che il tempo sembra distaccarlo, e la sua figura farsi più evanescente”. Citati su Mansfield: “Tutti coloro che conobbero Katherine Mansfield negli anni della sua breve vita, ebbero l’impressione di scorgere una creatura più delicata degli altri esseri umani: una ceramica d’Oriente, che le onde dell’oceano avevano trascinato sulle rive dei nostri mari”.
Nel Novecento, però, ci fu un uomo capace di essere non solo uno straordinario ritrattista, ma anche un eccellente scrittore. Il suo nome eraStefan Zweig. Austriaco, di origine ebraica, umanista e pacifista, costretto all’esilio dall’arrivo del nazismo, Zweig fu uno dei protagonisti della cultura mitteleuropea del Primo dopoguerra. Autore di novelle di successo (‘Amok’, ‘Lettera a una sconosciuta’) si ispirò nel campo della letteratura mondiale a Balzac, Dostoevskij e Dickens, ai quali dedicò saggi e biografie. “Si sentiva attratto dalle ‘ore siderali’ della vita umana – raccontò la sua prima moglie Friderike Maria Zweig – Il suo metodo fondamentale consisteva nel rappresentare idee mediante personalità. I suoi lettori ammetteranno che i ritratti sono uguali, per completezza di particolari e per comprensione profonda, a quelli di grandi pittori”. Basta leggere poche pagine per rendersene conto. In questi giorni sono usciti due ‘ritratti’ di Stefan Zweig: ‘Il demone di Nietzsche’ (Medusa) e ‘Montaigne’ (Castelvecchi).
Il saggio dedicato a Nietzsche ha un ritmo incalzante, febbrile, demoniaco. Zweig sceglie dei colori tenui per ritrarre il pensatore tedesco in una delle camere mobiliate e povere in cui si rinchiudeva, quest’essere solo con se stesso, solo contro se stesso, “autocarnefice spietato” senza pace e senza tregua. Sono pagine in cui emerge tutta la maestria di Zweig nell’arte di dipingere a parole. Osserviamo Nietzsche mentre “si accosta con prudenza alla tavola, delicato di stomaco, esamina ogni portata perchè ogni errore nel nutrirsi gli causa violente tensioni di nervi”. Per il resto nient’altro che libri. “Tutto stretto nel cappotto, le dita gelate, i doppi occhiali per la miopia, a lungo sta seduto finchè gli occhi gli bruciano. Se il tempo è bello esce, sempre solo, mai un saluto, mai un incontro, mai un caldo nudo corpo di donna accanto al suo”. E la notte “deve fare ricorso ai sonniferi perchè se il corpo è già stanco, il cervello non si lascia calmare ma continua ad agitarsi in visioni e pensieri”. Nietzsche soffre: “I suoi nervi sono in perenne allarme, sempre vigili su torri e feritoie, fuoco di fucileria contro la sua carne”. E’ il demone della conoscenza che non gli dà tregua e colora la sua vita di tragicità, un uomo condannato a pensare senza sosta, a inseguire idee sempre nuove, a trasformarsi, e i suoi libri, come disse lui stesso, “parlano solo dei miei superamenti”. Zweig, che ammonisce coloro che “si chiedono scolasticamente che cosa voleva Nietzsche, a quale concezione filosofica tendeva. Non voleva niente, non ci sono scopi, è solo un godimento di sé, un piacere privato e individuale”, lo paragona a Van Gogh per la sua forza creatrice. “Ad Arles, Van Gogh dipinge con la stessa maniacale pienezza. Appena finisce un quadro, mentre il pennello è ancora umido, gli occhi ardenti, senza smettere, già ne comincia un altro: il demone che lo afferra per la gola non dà tregua. Ugualmente Nietzsche crea un’opera dopo l’altra. Dieci, quattordici giorni, tre settimane: tanto durano le sue ultime opere. Mai cervello fu capace di tollerare una simile tensione, la visione è già parola”.
Con ‘Montaigne‘ il discorso cambia. Scritto in un momento di profonda afflizione, costretto a lasciare l’Austria (i suoi libri sono stati bruciati dai nazisti) , ripercorrere la vita dell’autore dei ‘Saggi‘ rappresenta per Zweig la strada verso la liberazione interiore. “Montaigne è diventato per me un fratello inseparabile, un supporto, un amico, quando il suo destino è diventato disperatamente simile al nostro”. Entrambi, infatti, furono testimoni impotenti della bestialità umana e della sconfitta dell’umanesimo. Pubblicato postumo (due capitoli rimasero sulla sua scrivania), Montaigne rivela a Zweig come trovare se stessi dentro ogni cosa e a non essere turbati da ciò che è esterno. Il suo mondo è l’Io. Dice a se stesso: “Non curarti del mondo. Tu non lo puoi cambiare né migliorare. Occupati di te stesso, salva in te quello che c’è da salvare. Mentre gli altri distruggono, tu costruisci, cerca di avere buonsenso con te stesso nel pieno della follia”. Sembrerebbe una posizione egoistica, ma non è così e Zweig lo puntualizza. Montaigne “non è un misantropo né un anacoreta, ama la convivialità, viaggia continuamente, è sempre diposto a prestarsi, mai a darsi, cercando di fare la cosa più difficile al mondo: vivere se stesso, essere libero”. Per Montaigne, dunque, la vita va vissuta attivamente e chi ha letto i ‘Saggi‘, che traboccano di vita, questo lo sa. Zweig non lo ricorda, ma Nietzsche disse di Montaigne: “Per il fatto che un tal uomo abbia scritto, il piacere di vivere su questa terra è stato aumentato”. Chissà che almeno in quelle ore di lettura, chino sui libri, Nietzsche abbia trovato ristoro per la mente, in attesa che il demone tornasse a visitarlo.