di Alessandro Melia
Vincent Van Gogh arrivò ad Arles un giorno di febbraio del 1888. Nella piccola cittadina francese affacciata sul Rodano, che delimita i confini tra Provenza e Camargue, Van Gogh si lasciò attrarre come un magnete dallo splendore degli elementi naturali: la luce, il vento, i campi di grano. Lì, dove la natura ha i colori dell’oro, del bronzo e del rame, Van Gogh ci vedeva il mare. “Quei campi sconfinati fino all’orizzonte somigliano al mare. Questo paesaggio è come un mare senza niente”. Cominciò allora un periodo di lavoro intenso e appassionato alla luce del mezzogiorno. Il soggiorno ad Arles è, nella vita del pittore, l’epoca più produttiva in tele e disegni: oltre 300 opere in quindici mesi. Ma Van Gogh fu prolifico anche nella scrittura. Per diciotto anni scrisse ininterrottamente al fratello Theo, il solo a cui confidò i pensieri più privati, i momenti di estasi pittorica e quelli, tragici, in cui la sua mente si affollava di paure innominabili. Queste lettere sono la testimonianza dell’esigenza che aveva Van Gogh di parlare della vita. Mai ci fu artista capace di intrecciare in modo così indissolubile pittura, scrittura e vita.
A ricordarcelo è la disegnatrice olandese Barbara Stok, che su richiesta del Van Gogh Museum di Amsterdam, ha realizzato una biografia a fumetti – ‘Vincent‘ (Bao Publishing) – incentrata sul periodo in cui l’artista visse ad Arles. Ho letto questa graphic novel di ritorno da un viaggio in Provenza, dove ho visitato i luoghi di Van Gogh: Arles e Saint-Remy de Provence, sede dell’antico monastero di Saint Paul de Mausole, diventato ospedale psichiatrico, in cui l’artista si fece ricoverare per un anno dopo essersi tagliato un pezzo d’orecchio. Ad Arles, invece, Van Gogh prese in affitto l’ala destra di una casetta in Place Lamartine 2 (nota come ‘La casa gialla’), trasformandola in una maison d’artiste. Aveva un sogno: lavorare con altri pittori e creare una casa di artisti per sé e i suoi amici, con il sostegno economico di Theo. Un desiderio andato in frantumi a causa dei disturbi mentali (ospitò per un certo tempo Paul Gauguin “con il quale si trovò in uno stato di inferiorità di fronte alla sua fredda logica”, raccontò Johanna Bonger, moglie di Theo). Passeggiando per le vie di Arles ci si imbatte nei pannelli che rappresentano alcuni dei suoi quadri più celebri: ‘La casa gialla‘, ‘Notte stellata‘, ‘I giardini della casa di cura‘ (nelle foto qui sotto). Fa una certa impressione sedersi al Cafè la Nuit, che Van Gogh dipinse in ‘Esterno di caffè di notte‘, o visitare il vecchio ospedale di Arles, dove spicca la rigogliosa bellezza dei giardini. Ma sono le lettere tra Vincent e Theo, profonde e piene d’amore, la ‘mappa’ per arrivare a comprendere la vita di Van Gogh. E’ da quelle parole che Barbara Stok ha ricostruito gli ultimi anni di vita dell’artista, che non furono soltanto disperati. Intorno a lui la potenza dei colori, il senso di pace che gli procurava la natura sconfinata, l’ardente desiderio di racchiudere la vita in un quadro, il sostegno e l’affetto incondizionato di Theo, che morirà appena sei mesi dopo Vincent. Il loro fu un rapporto simbiotico, che il russo Ossip Zadkine ha rappresentato con una scultura che raffigura due uomini seduti, uno con il braccio intorno alle spalle dell’altro, e le teste che si sfiorano. Geoff Dyer, nel saggio ‘Blues per Vincent’ del 1989, inserito nella raccolta ‘Il sesso nelle camere d’albergo’ (Einaudi) uscita in questi giorni, scrive: “Non si capisce subito quale delle figure di Zadkine sia Vincent e quale Theo. Come tutti coloro che alleviano la sofferenza degli altri, Theo – in un processo che è l’esatto contrario della trasfusione sanguigna – ha assunto su di sé parte della sofferenza di Vincent. Ben presto, però, diventa chiaro che nonostante il cielo prema schiacciante su tutt’e due le figure, una, Vincent, sente la gravità come una forza così terribile da trascinare gli uomini sottoterra. Da lì in poi sei in preda del pathos e della bellezza. Una figura dice: ‘Non mi riprenderò mai’, l’altra: ‘Ti tengo stretto finchè non ti riprendi‘”.
Leggere Dyer significa lasciare che la nostra mente segua percorsi diversi, sia fluida, libera di essere contaminata da storie, aneddoti, racconti sui temi più diversi: fotografia, cinema, letteratura, musica, quadri, esperienze personali. “Sono stati l’argomento e l’umore a dettare sempre la forma e lo stile di questi pezzi. Se succede qualcosa che mi commuove nel profondo, io per istinto la esprimo e l’analizzo in un saggio” dice Dyer nell’introduzione. Così è possibile che uno stesso articolo cominci parlando di scultura, continui con la filosofia e la fotografia, e finisca con la poesia. Esplorando i saggi di Dyer incontriamo personaggi del calibro di Richard Avedon, Auguste Rodin, Friedrich Nietzsche, Susan Sontag, John Cheever, Winfried Sebald, Albert Camus. In queste passeggiate Dyer ci prende per mano e ci conduce nel suo mondo, ricordandoci che una cosa che ci interessa può portarci a scoprirne un’altra altrettanto interessante e che, magari, il punto da cui eravamo partiti non ci interessa più. L’importante nella vita è restare sempre curiosi.