E’ uscito da pochi giorni un breve saggio dello scrittore Paolo di Paolo, ‘Tempo senza scelte’ (Einaudi) che mi dà l’occasione di aggiungere un tassello al discorso, iniziato prima dell’estate, sui libri che aiutano a capire il mondo. Di Paolo pone una domanda: “Dove la Storia non chiede risposte nette, dove si è esposti a miriadi di opzioni evanescenti, è ancora possibile prendere decisioni radicali, accettare il rischio, percorrere una strada fino in fondo?”. Quindi porta all’attenzione del lettore le storie di uomini che in passato – quando la Storia incalzava – hanno dovuto scegliere: i giovani temerari Piero Gobetti e Renato Serra, Federico Garcia Lorca, Hans e Sophie Scholl. Ma anche uomini che non hanno avuto scelta (Walter Benjamin) o hanno cercato di definirla (Italo Calvino).
Per tutto il libro la domanda ci pressa. “Dove sarà mai l’istante in cui si prende una posizione radicale con tutta l’intensità della personalità?”. Se osserviamo il passato, come ci mostra Di Paolo, potremmo rispondere che questo è il tempo in cui non c’è bisogno di scelte così nette. Se osserviamo il presente, invece, ci accorgiamo che la risposta è strettamente connessa con la fine delle ideologie, la precarietà del lavoro, la crisi economica, la perdita delle memoria, una generale sfiducia nel futuro, non più atteso ma temuto. E’ la società in cui viviamo che ci costringe a non poter scegliere o a scegliere la cosa più facile, ad abbandonare i nostri desideri per inseguire la quotidianità, la sopravvivenza. Eccolo il tempo senza scelte, dunque.
Di Paolo però non si ferma qui. A domanda aggiunge domanda. Se questo è il tempo senza scelte, ci dice, “conviene domandarsi se si tratti di una forma di libertà superiore la possibilità di esistere fuori da ogni schema predefinito, o sia un’illusione prospettica”. Di Paolo non risponde direttamente, ma invita il lettore a riflettere su questo aspetto portando l’esempio dei social network, trasformati in sfogatoi, frequentati perlopiù da persone con il ghigno, che “non misurano il peso delle parole, impermeabili a tutto, incapaci di prendere sul serio alcunché”. Leggendo questo passo mi sono venute in mente le parole dello storico olandese Johan Huizinga, che nel trattato ‘La crisi della civiltà’, scritto nel 1935 ma di un’attualità quasi profetica, ammoniva la sua generazione: “Vediamo distintamente come quasi tutte le cose, che ci apparivano salde e sacre, si siano messe a vacillare: verità e umanità, ragione e diritto. Se si vuole che questa civiltà si salvi, che non decada a secoli di barbarie, è necessario che gli uomini d’oggi si rendano esatto conto di quanto già sia progredita la dissoluzione che li minaccia”.
Ho l’impressione che la maggior parte delle persone intuiscano questa dissoluzione, ma preferiscano non prenderla sul serio o semplificarla terribilmente con un “e che sarà mai”. E’ qui che Di Paolo interviene con voce propria: “Quando gli altri se ne stanno al riparo dietro a un paravento fatto di irriverenza, c’è bisogno di scegliere di essere per qualcosa, e non contro”. Chi fa questo sforzo “si espone al ridicolo, al sarcasmo, ma diventa incredibilmente più prezioso dei professionisti del ghigno”.
L’importanza del libro è dunque riassunta. C’è però un capitolo, di cui non ho ancora parlato, che vale la pena sottolineare. E’ quello che di Paolo dedica alla scelta dello scrittore. “C’è qualcosa che non va in un Paese che rimpiange gli scrittori impegnati del passato, celebra quelli stranieri se prendono posizione, e costringe i propri contemporanei a tacere. Quei pochi che ancora azzardano prese di posizione nette sono spesso guardati con diffidenza”. La colpa, secondo Di Paolo, è per una parte degli stessi scrittori – “che temendo di apparire pesanti hanno annegato nel cazzeggio qualunque spessore” – e per una parte “degli insofferenti detrattori dell’impegno, che temono la propria stessa ininfluenza in un’epoca in cui i creatori d’opinione si sono moltiplicati a dismisura, uno per ogni profilo social, potremmo dire”. Ma un’alternativa praticabile c’è, sostiene Di Paolo, “basta qualche pagine di Orwell o di Camus per capire che uno scrittore può lavorare per il presente e non solo per se stesso, se alimenta dubbi e non certezze, se fa valere la specificità, anche solo emotiva, di un’esperienza del mondo”.
Questo tema ciclicamente emerge sui giornali o nei social network quando si è a ridosso di un anniversario (come è accaduto nel 2015 per i quarant’anni dalla morte di Pasolini) o di fronte alle presa di posizione di uno scrittore – Roberto Saviano, per esempio – rispetto a un fatto politico. In queste occasioni c’è sempre qualcuno che ricorda come nel passato gli scrittori fossero anche intellettuali militanti e dunque avessero un pensiero critico e un peso maggiore, chi sostiene che l’avvento della televisione ha tolto la voce anche agli scrittori, li ha resi evanescenti, figuriamoci i social. Io preferisco rifarmi alle parole di Natalia Ginzburg: “Non credo che i romanzieri, e i romanzi che scrivono, possano mai essere utili alla vita pubblica. Credo fermamente nella loro splendida inutilità. Penso però che a volte può succedere che alcuni romanzieri, come persone, possano provare un senso di collera, di sdegno civile, e l’impulso a essere utili alla vita pubblica. Vi potranno portare un poco della loro esperienza umana, avendo essi a lungo osservato gli eventi umani. Vi porteranno anche il carico delle loro inettitudini, ignoranze, incoerenze e perplessità. Vi porteranno anche il loro ostinato amore per la contemplazione. Essi avranno, come ogni persona, il dovere dell’onestà”.