Dialoghi da una libreria antiquaria romana /7

“Ammazza quanta roba! Sembra de sta ar mercatino”. “Eh magari, quelli armeno du sordi li fanno”. “Ma da dove arriva?”. “So gli oggetti dello studio di un signore che viveva nel palazzo di fronte. E’ morto qualche giorno fa e la vedova mi ha chiesto se potevo liberare la stanza”. “E che ce fai mo co ste cose…cartoline, portapenne, tagliacarte, quadretti, un mappamondo, una vecchia pipa…”. “Provo a venderli, tanto agli oggetti non importa nulla della nostra vita, ma a noi interessa molto la storia di questi essere feroci che invadono il nostro mattino”. “Che frase! Ma sei un poeta!”. “Ma mica è mia. E’ de Alda Merini”. “Ah, me pareva…”. “E’ ‘na poesia sugli oggetti che finisce così: ‘Questi esseri che si svegliano con noi all’alba e che continuano a ripetere crudeli: Sei ancora qui con noi, ancora una volta viva’”. “Aò, m’hai fatto venì er magone”. “Eh ma Alda era Alda, oggi non la legge più nessuno ma era na grande”. “Senti ma…quanto voi per la pipa?”.

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Dialoghi da una libreria antiquaria romana /6

“Aò, che è quella faccia?”. “Lascia sta, m’hanno appena rubato un libro”. “Ma che davero? E chi è stato?”. “E’ quello er problema…”. “Cioè?”. “Un cliente storico, uno che viene da vent’anni, un magistrato in pensione”. “E che s’è rubato?”. “Un volume da duemila euro”. “Hai capito er magistrato”. “Da me non l’aveva mai fatto, ma in altre librerie lo conoscono, non so se me spiego…”. “Ah, pure!”. “Lo hanno soprannominato Guglielmo”. “Guglielmo?”. “Sì, come Guglielmo Libri, quel matematico che nel 1848 in Francia si rubò migliaia di libri dalle biblioteche pubbliche e fu costretto a scappare in Inghilterra. Lui negò sempre i furti, ma quando morì gli ritrovarono in casa oltre quarantamila manoscritti rarissimi”. “Che roba!”. “Furbo Guglielmo eh?”. “Sì, però lo sai mejo de me che uno se può rubà tutti i libri del monno, ma non riuscirà mai a leggerli prima de morì”. “Già. Coi libri si esce comunque sconfitti…”.

Dieci libri del Novecento italiano da riscoprire quest’estate

Accertato che: A) d’estate la gente legge (sarà poi vero?); B) qualsiasi editorialista o critico letterario o scrittore o blogger o ufficio stampa si sente in dovere di consigliare libri per l’estate; C) “se vi vedono in spiaggia con Siddharta di Hermann Hesse ci farete la pessima figura che meritate perché lo hanno letto tutti” (Manganelli); mi accingo a presentare dieci libri quasi del tutto scomparsi dal panorama editoriale. Sono dieci romanzi, o raccolte di racconti, di scrittori del Novecento italiano che per stile, repertorio di parole, originalità e contenuti, hanno pochi eguali. Purtroppo per loro – e per noi – sono finiti nel dimenticatoio. Meno ripubblicati del gruppo dei più noti (Calvino, Moravia, Pavese, Gadda, Levi, Morante, Ginzburg, Buzzati, Ortese, Landolfi, Arbasino) basta iniziare a leggere le loro storie per essere attirati come le mosche al miele. Ma chi sono? Eccoli in ordine sparso: Arpino, Chiara, Soldati, Cassola, Bilenchi, D’Arzo, Pomilio, Bassani, Bufalino e Zavattini. Come ho già detto, li ho scelti un po’ perché non ne parla più nessuno, un po’ perché per trovare i loro libri è necessario frequentare anche le librerie d’occasione, ed è sempre un’esperienza utile e divertente, un po’ perché ci ricordano com’era l’Italia quaranta o cinquanta anni fa, e un po’ perché parlano di temi estivi come il viaggio, la memoria, gli spettri, gli incontri amorosi. Di ogni libro riassumerò la trama, citerò la casa editrice e riporterò gli incipit, che sono delle vere e proprie lezioni di scrittura.

 

 

Giovanni Arpino – Passo d’addio (Einaudi)

Trama:

Sei personaggi (un vecchio professore filosofo-matematico, il suo miglior allievo, due anziane signorine, un pizzaiolo, una ragazza irrequieta) alle prese con una scelta drammatica. Un delitto? Un peccato mortale? Un gesto proibito? In ogni caso una vicenda che riguarda tutti noi.

Incipit:

“La vita o è stile o è errore”.
Tracciate da un’incerta grafia queste parole spiccano sulla lavagna tra ghirigori matematici, formule e calcoli resi ormai indecifrabili da successive cancellazioni. Due linee sfrecciavano però, ancora nitide, da quell’“errore” per suggerire altre possibili conclusioni: “sciagura” e “idiozia”.
Il giovane Carlo Meroni aveva occhieggiato la frase mascherando il solito imbarazzo. Ogni domenica veniva omaggiato con una nuova massima. La lavagna costituiva infatti il labile diario del suo vecchio maestro, il professor Giovanni Bertola, docente di matematica da tempo in pensione. Carlo Meroni gli dedicava il pomeriggio festivo con una fedeltà che ad osservatori superficiali sarebbe apparsa perlomeno singolare.

 

Mario Soldati – Storie di spettri (Mondadori)

Trama:

Venti “ghost stories” condotte sul filo di fatti, incontri, emozioni di ogni giorno. Soldati ci porta nei suoi luoghi letterari prediletti: Torino, Roma, Genova, la pianura padana, il Lago Maggiore, la Valsolda.

Incipit (da Il tarocco numero 13):

Se dovessi dire perché, da qualche anno, vengo a passare le feste in questa piccola città dell’alta valle di Susa, risponderei: “Perché qui, in un vecchio albergo, c’è una porta imbottita di pelle che dà direttamente sulla scala ai piani superiori: e nel centro di questa porta, una losanga di vetro”.
Attraverso la losanga di vetro si vedono soltanto gli scalini con la loro guida di felpa rossa: nient’altro. Ma quel rosso e quella figura geometrica hanno per me un incanto misterioso. Immobile nel corridoio, non mi stanco di guardare.

 

Cesare Zavattini – Parliamo tanto di me (Bompiani)

Trama:

Primo libro di Zavattini, scritto all’età di 27-28 anni mentre il padre moriva di cirrosi epatica. Storia di un uomo che di notte viene svegliato da uno Spirito che lo guiderà in un viaggio nell’aldilà alla scoperta di Inferno, Purgatorio e Paradiso.

Incipit:

La notte del 17 gennaio 1930 leggevo un romanzo d’amore. Il fuoco crepitava nel camino. Coricato nel soffice letto, interrompevo ogni tanto la lettura per ascoltare i sibili del vento fra gli alberi della foresta. I vetri tersi della finestra lasciavano scorgere il cielo pallido e due alberi, sulla collina, ornati di neve. Guardai il pendolo: segnava le due. Spensi la luce, mi rannicchiai sotto le coltri. – Dormiamo – dissi.

 

Romano Bilenchi – Gli anni impossibili (Rizzoli)

Trama:

Trittico di storie di formazione unite da un filo invisibile, raccontano l’approssimarsi alla vita di un ragazzo che si trova davanti a ostacoli e problemi imprevisti e sconosciuti.

Incipit:

L’anno della siccità segnò il culmine dell’amicizia tra me e mio nonno.
Da otto mesi il nonno e la nonna avevano smesso di lavorare e abbandonato l’albergo tenuto in affitto fino dalla loro giovinezza, nel quale, dopo un’incessante faticosa lotta, erano riusciti a mettere insieme un discreto capitale. Si erano ritirati nella casa acquistata in via dei Tre Mori dove anche io ero andato ad abitare con la mamma e col babbo. Il nonno, però, non riusciva a godere del libero riposo come si era ripromesso nel compiere quel doloroso quanto risoluto passo da una vita varia e prodigalmente attiva ma schiava dei bisogni e dei capricci del primo venuto, a un’altra inoperosa sì ma tutta disponibile, da riempirsi di soli piacevoli svaghi, di faccende soltanto volontarie.

 

Giorgio Bassani – L’Airone (Feltrinelli)

Trama:

Storia dell’ultima giornata di vita del cacciatore Edgardo Limentani, ambientato nell’inverno del 1947 tra Ferrara, Codigoro e il Po. Si tratta dell’ultimo romanzo di Bassani, che vinse il premio Campiello nel 1969. Dalla quarta di copertina: romanzo sul malessere esistenziale onnicomprensivo che pervade ogni aspetto della realtà.

Incipit:

Non subito, ma risalendo con una certa fatica dal pozzo senza fondo dell’incoscienza, Edgardo Limentani sporse il braccio destro in direzione del comodino. La piccola sveglia da viaggio che Nives, sua moglie, gli aveva regalato tre anni fa a Basilea in occasione del suo quarantaduesimo compleanno, continuava, nel buio, a emettere a brevi intervalli il suo suono acuto e insistente, anche se discreto. Bisognava farla tacere.

 

Silvio D’Arzo – Casa d’altri (Einaudi)

Trama:

L’incontro tra un prete da sagre, confinato in un paesino della provincia emiliana dove non succede mai nulla, e Zelinda, una vecchia che passa le giornate lavando i panni nel fiume, senza avere contatti con la gente. Un giorno, però, lei chiede al prete di derogare a una “regola” della Chiesa cattolica.

Incipit:

All’improvviso dal sentiero dei pascoli, ma ancora molto lontano, arrivò l’abbaiare di un cane.
Tutti alzammo la testa.
E poi di due o di tre cani. E poi il rumore dei campanacci di bronzo.
Chini attorno al saccone di foglie, al lume della candela, c’eravamo io, due o tre donne di casa, e più in là qualche vecchia del borgo. Mai assistito a una lezione di anatomia? Bene. La stessa cosa per noi in certo senso.

 

Gesualdo Bufalino – Argo il cieco (Bompiani)

Trama:

Diario-romanzo di un vecchio (lo stesso autore forse, o forse no) che vanamente si ostina a promuovere in leggenda, attraverso comici o tragici racconti, la sua povera vita.

Incipit:

Fui giovane e felice un’estate, nel cinquantuno. Né prima né dopo; quell’estate. E forse fu grazia del luogo dove abitavo, un paese in figura di melagrana spaccata; vicino al mare ma campagnolo; metà ristretto su un prone di roccia, metà sparpagliato ai suoi piedi; con tante scale fra le due metà, a far da pacieri, e nuvole in cielo da un campanile all’altro, trafelate come staffette dei Cavalleggeri del Re…Che sventolare, a quel tempo, di percalli da corredo e lenzuola di tela di lino per tutti i vicoli delle due Modiche, la Bassa e la Alta; e che angele ragazze si spenzolavano dai davanzali, tutte brune. Quella che amavo io era la più bruna.

 

Carlo Cassola – Il taglio del bosco (Mondadori)

Trama:

Storia di un uomo, Guglielmo, rimasto vedovo, con due bambine, che cerca per disperazione la sua pace nel lavoro. Intorno a lui ruotano quattro personaggi, tra i quali una donna, Fiore.

Incipit:

Dopo Montecerboli i viaggiatori si ridussero a cinque: un giovanotto, un uomo, due donne e un bimbo.
Il fattorino si fregò le mani:
– Siamo proprio in famiglia, stasera, – disse soddisfatto.
L’uomo in fondo sorrise, poi si mise a guardare fuori del finestrino, benché non si vedesse nulla a causa del buio.
Era un uomo dall’apparente età di trentasette-trentott’anni. Indossava una giacca col bavero di pelliccia consunto per l’uso, e teneva il cappello leggermente rialzato sulla fronte. Aveva il viso magro, il naso diritto, le labbra ferme, le mani ossute e robuste.

 

Piero Chiara – L’uovo al cianuro e altre storie (Mondadori)

Trama:

La vita di provincia fra storie drammatiche e umoristiche, tra misteri e passioni. Secondo Dino Buzzati ‘Ti sento, Giuditta’ è il racconto ideale, tanto che lo teneva sulla sua scrivania durante gli anni al Corriere della Sera.

Incipit (da Ti sento, Giuditta):

Più di una volta, da ragazzo, gironzolando sul porto avevo notato che uno dei più seri frequentatori del Caffè Clerici, Amedeo Brovelli, ex commerciante ritirato dagli affari con poca rendita, nelle giornate di tramontana stava fermo per ore intere sul molo, coi capelli grigi arruffati dal vento che lo prendeva di spalle. Non pescava e neppure abbassava gli occhi sullo specchio d’acqua del porto, ma teneva lo sguardo rivolto verso il paese, senza espressione, come se guardasse nel vuoto.

 

Mario Pomilio – Una lapide in via del Babuino (Avagliano)

Trama:

Uno scrittore anziano scopre in un suo vecchio quaderno d’appunti l’abbozzo di una possibile storia. Una storia che non ha trovato la sua forma e non è diventata un libro. Lo stimolo era venuto da una lapide posta sulla facciata di un palazzo romano.

Incipit:

Adesso s’accorgeva d’essere stato felice senza saperlo. Ma questo pensiero, invece d’amareggiarlo, gli procurava una curiosa sensazione di serenità. Era come scoprire d’aver accumulato, a poco a poco e senza quasi essersene accorto, una piccola riserva di cose buone da ricordare, che gli avrebbero consentito di vivere di rendita a patto che lui sapesse farle fruttare. Altrimenti non si spiegava perché da tanto tempo si sentisse così bisognoso di memorie e attendesse con tanta cura a difenderle da ogni sperpero.

Dialoghi da una libreria antiquaria romana /5

“Aò, cos’è quella faccia? Che t’è successo?”. “Lascia perde, so pieno de dolori alla schiena, è la vecchiaia”. “Ma mica sei vecchio tu”. “So vecchio, so vecchio. So così vecchio che ho ricominciato a piagne leggendo la poesia”. “Ma non lo sai che non se deve legge la poesia quando si è vecchi? Te devi legge la filosofia”. “Ma sei sicuro?”. “Ma n’te ricordi Boezio?”. “Chi?”. “Severino Boezio, quello che ha scritto la Consolazione della Filosofia?”. “Ah, e che jè successo?”. “Passame il libro…ah si, ecco…lui stava in carcere e leggeva libri de poesia per cercare de consolarsi dar fatto che sentiva la morte vicina. A ‘n certo punto però gli appariva na donna arrabbiata che je diceva: ‘Chi ha permesso che si accostassero al malato queste sgualdrinelle da teatro che non solo non posso offrire alcun rimedio ai suoi dolori, ma anzi con i loro dolci veleni li alimentano? Andatevene e lasciate che siano le mie arti a guarirlo'”. “Ma chi era sta donna?”. “Aò me sei de coccio. Era la Filosofia”. “E le sgualdrinelle?”. “Le Muse della poesia”. Quindi me dovrei legge Boezio?”.”Sì, ma forse è meglio se per oggi lasci perdere. Annamo a magnà due pasterelle va”.

Dialoghi da una libreria antiquaria romana /4

“Ammazza che callo che fa, se schiatta!”. “Da morì, è arrivato tutto insieme”. “E’ pure metà giugno però, dai”. “Eh ma ‘na volta a Roma, tipo nell’Ottocento, il caldo arrivava a luglio”. “Ma che ne sai te?”. “L’ha scritto Stendhal”. “E te ci credi? Non lo sai che a Stendhal gli piaceva scrive fregandosene della verità?”. “Aò, non me toccà Stendhal. Uomo sublime!”. “Sì, sarà pure sublime ma è uno di cui non ci si può fidare ciecamente. Comunque che ha scritto?”. “Aspè mo te leggo…ecco…’1834, clima di Roma. Calore da non dormire dall’8 luglio al 10 settembre. Scirocco dal 20 al 24, troppo caldo’. Quindi il caldo arrivava a luglio”. “Ma dove l’ha scritta sta cosa?”. “Dentro un saggio su Shakespeare, a lui je piaceva scrive sui libri”. “Passamelo un attimo…ma hai letto cosa dice qualche pagina dopo?”. “No, che dice?”. “Vi sono delle oziosità che si dicono per brillare. Non c’è nulla nella vita che vada presa sul serio”.

Dialoghi da una libreria antiquaria romana /3

“Insomma com’è andata a Trieste?”. “Benissimo, è una città meravigliosa, cammini e ti senti dentro la Storia”. “Eh lo so, piace tanto anche a me. Ma sei annato alla libreria de Saba?”. “Sì, ma era chiusa”. “Peccato, me la ricordo vent’anni fa, ‘no spettacolo”. “Immagino”. “Saba ce voleva morì lì dentro”. “Ah sì?”. “L’ha scritto nel Canzoniere…aspè mo te leggo er pezzo…ecco: ‘Una strana bottega d’antiquariato s’apre, a Trieste, in una via secreta. Vive in quell’aria tranquilla un poeta. Dei morti in quel vivente lapidario la sua opera compie, onesta e lieta, d’Amor pensoso, ignoto e solitario. Morir spezzato dal chiuso fervore vorrebbe un giorno; sulle amate carte chiudere gli occhi che han veduto tanto'”. “Bello”. “Sì. Me piacerebbe morì così pure a me”. “Dai che sei ancora giovane. E poi Saba è morto malato in una clinica”. “Invece io morirò de rabbia a vedè Roma allo sbando”.

Dialoghi da una libreria antiquaria romana /2

bessarione“Eh insomma manco Totti c’avemo più”. “Già”. “Me viè ancora da piagne”. “Parliamo di libri che è meglio dai”. “Ma che meglio…me viè da piagne uguale”. “Perchè?”. “Non li vole più nessuno i libri”. “Ma se vedo sempre n’sacco de gente qui”. “Vengono a chiacchierà”. “Ogni tanto però comprano”. “Sempre de meno. So finiti i tempi del cardinale Bessarione”. “Chi?”. “Bessarione, quello che donò a Venezia la sua biblioteca”. “Non lo conosco”. “Mo te leggo la lettera che scrisse nel 1468 al doge Cristoforo Moro…la tengo nel cassetto…aspè…ecco senti che roba: ‘I libri vivono, discorrono, parlano con noi, ci insegnano, ci ammaestrano, ci consolano, ci fanno presenti ponendole sotto gli occhi cose remotissime della nostra memoria”. “Aveva ragione Bessarione”. “Aspè senti come finisce…’senza i libri saremmo tutti rozzi e ignoranti, non avremmo conoscenza alcuna delle cose umane e divine; la stessa urna che accoglie i corpi, cancellerebbe anche la memoria degli uomini”. “Molto bella”. “E invece mò i libri li buttamo, la gente preferisce magnasse ‘n gelato”. “Aò so più triste de quando so arrivato..”. “Te l’ho detto che era mejo parlà de Totti…”.

Dialoghi da una libreria antiquaria romana

“Bella questa biografia su Pietro Bembo”. “Ah Bembo, quello che aveva la storia con Lucrezia Borgia. Lo dice il libro?”. “Aspetta che cerco…ecco…’Pietro aveva tutte le doti che Lucrezia cercava in uomo: colto, fascinoso, arrembante…e Lucrezia era irresistibile per Pietro. L’attrazione fu immediata’”. “Lo sai come si divertivano sì?”. “Già”. “Ma Bembo è morto a Roma?”. “Non lo so”. “Mi pare di sì…aspè…sì, vedì, a Roma nel 1547. E’ sepolto nella chiesa di Santa Maria sopra Minerva. Oddio ma qual è?”. “Prendo l’Armellini?”. “Ah già, grande Armellini. Sì, guarda un po’ do sta”. “Maria sopra Minerva…Minerva…ah è a piazza della Minerva, al Pantheon”. “Oh lo sai che non ci sono mai entrato!”. “Manco io”. “Ma che dice l’Armellini?”. “Che ci sono sepolti pure Caterina da Siena e il Beato Angelico”. “Pensa te”. “L’andrò a vedere”. “Comunque puoi girà quanto te pare ma Roma è Roma…”. “Già”. “A Roma ce sta davvero di tutto…”. “Vero”. “Vabbè vai, la prossima volta te faccio vedè un libro de Casanova…n’artro che sapeva vive…”

Storia breve di lui e di lei

Quella mattina, prima di tentare il suicidio, decise di fare colazione nel caffè dell’hotel. Scelse un tavolo in fondo alla sala e ordinò pane e marmellata di visciole. Dalla cucina uscì una ragazza. Capelli ricci. Occhi verdi. Pelle lattea. Indossava una maglia di cotone bianca con un fiocco nero sulla spalla e una gonna a pois. Da come si muoveva a da certe espressioni del viso che giudicò di inconsapevole sensualità, capì che avrebbe rimandato il suo piano di morte.

La mattina dopo si ripresentò nella sala caffè. Ordinò il pane e la marmellata di visciole e si concentrò sui fogli bianchi. Da quando sua moglie lo aveva abbandonato non era più stato in grado di disegnare, ma ora sentiva che quella ragazza rappresentava un’ultima occasione. Restò a spiarla mentre sparecchiava i tavoli. Un paio d’ore dopo terminò la bozza di un ritratto.

Il terzo giorno disegnò senza sosta. Lo strano bagliore che emanava il viso della ragazza lo stimolava a non fermarsi. Ogni tanto alzava gli occhi e la sorprendeva a sbirciarlo. Avrebbe potuto parlarle, ma non voleva rompere quel legame silenzioso. Le doveva la vita.

Il quarto giorno la porta a vetri del caffè era chiusa e le luci erano spente. Provò a bussare. Comparve una donna corpulenta con una scopa in mano. “Siamo chiusi. La ragazza non è arrivata”. Provò un senso di sconforto. Uscì fuori e si accasciò su una panchina a osservare il mare. Le raffiche di vento lo avevano fatto ingrossare, le onde spumeggiavano contro gli scogli. Restò così finché qualcosa di liscio gli sfiorò la mano. Si voltò di scatto.

– Ciao.

– Ciao.

– Mi sono accorta che avevi finito i fogli così ti ho comprato un album nuovo.

– Grazie.

– A cosa stavi pensando?

– A cose di tanto tempo fa. Ma ora smetto.

La scrittura e la morte: Il Salto di Sarah Manguso

Se mi chiedessero cos’è per te la narrativa, probabilmente risponderei: il modo migliore che conosco per esorcizzare la morte, parlando di morti. Quando leggiamo non solo riportiamo in vita la storia che stiamo leggendo – una storia che è già avvenuta e fa parte del passato – ma stiamo anche accendendo un faro sul nostro presente. Se lo scrittore è bravo ci consegnerà qualcosa che proviene dal mondo dei morti, ma che potremo fare nostro nel mondo dei vivi.

I libri che parlano di morte spesso sono memoir, diari, scritture che non seguono canoni prestabiliti, ma cercano i giusti sbocchi per raccontare l’esperienza umana. Sarah Manguso ci è riuscita egregiamente ne Il Salto (NNE), elegia per l’amico Harris J. Wulfson, suicida sotto un treno della metro di New York. Harris amava la musica, aveva un lavoro, un amore, una vita piena, ma soffriva di episodi psicotici ed è proprio dopo uno di questi che decide di fuggire dall’ospedale dove è ricoverato e di gettarsi sotto un treno in arrivo. Per la Manguso è un colpo terribile, Harris era il suo amico più caro e intimo, la capiva come nessun altro. La scrittrice conosce la psicosi perché anche lei ne ha sofferto, ha fatto uso (e continua a farne) di farmaci psicotropi e ha sperimentato gli effetti collaterali come la acatisia, sindrome che si manifesta come l’impossibilità di stare fermi per un’inquietudine, una sofferenza, un disagio insopportabile. Manguso rivela inoltre di aver avuto lei stessa la tentazione del suicidio; un gesto che in certe situazioni le sembra plausibile, razionale e non egoistico. Lo psicoanalista James Hillman ha scritto che il suicidio è un problema che non riguarda la vita, ma la vita e la morte insieme, e dunque più che essere spiegato attende di essere compreso. E’ questo il tentativo della Manguso: comprendere il suicidio di Harris e al tempo stesso comprendere se stessa di fronte al dolore, ricordandosi di essere, in fondo, soltanto “una particella in un processo cosmico che non ha niente a che fare con il desiderio o la giustizia”.

Ogni volta che leggo un libro dedicato alla morte di una persona cara, penso alla fatica fatta dall’autore. Se vuole trasmettere qualcosa al lettore non gli basta raccontare la cronaca di un avvenimento o la vita di quella persona; deve mettersi in gioco e attraversare il suo dolore, la sua vergogna, la sua paura, per risultare alla fine non più forte, ma consapevole. E’ un processo di scrittura e di analisi insieme a cui non si può sottrarre. Sarah Manguso ci si immerge fin dalla prima pagina, riuscendo così a stabilire un immediato legame con il lettore.

“Questo dolore è mio, e a differenza del mio amico non cerco di nasconderlo” (pagina 9); “Non parlatemi della ricca varietà di tradizioni funebri dagli albori della civiltà a oggi – non voglio sapere niente delle tradizioni. Non mi interessa scoprire come gli altri recitano il dramma della loro rovina. Voglio sapere del mio dolore, che è inconoscibile, come quello di tutti” (pagina 61);  “Quando un tuo amico si butta sotto un treno, tu ripeti agli altri tuoi amici che gli vuoi bene, nel caso si vogliano buttare sotto un treno prima che tu abbia la possibilità di dirglielo” (pagina 77); “Non posso misurare il mio dolore e nemmeno far vedere di che colore è. Il mio dolore è sempre e soltanto mio” (pagina 79); “A cosa serve il dolore? Spiegazione reale: l’amore rimane. Non c’è altro conforto” (pagina 81); “Quando Harris morì, decisi di trascorrere un po’ di tempo a immaginare tutte le morti che non potevo prevedere. Visualizzavo la morte dei miei genitori, di mio marito, dei miei amici. Quando la morte reale arriverà, l’avrò già vissuta. Il suo assalto non mi farà vacillare” (pagina 85); “Il disegno della vita è l’esecuzione di vari progetti in un lasso di tempo ignoto ma finito. Molti di noi non sanno quanto durerà, quindi non sappiamo come usare il nostro tempo in modo significativo” (pagina 87).

Epicuro sostiene che non si deve temere la morte perché finché noi esistiamo lei non c’è e quando è arrivata noi non ci siamo più e dunque non può farci del male. E’ senz’altro vero, ma ciò che spaventa – e che ha spaventato Sarah Manguso – è il dolore, la sofferenza, l’incapacità di non essere più ciò che con tutte le forze si è cercato di essere.

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